Collezionista di colazioni e fotografa, in dialogo con Anthelme Brillat-Savarin
Critico gastronomico in incognito da 13 anni per una Guida nazionale e gourmet da molto più tempo.
Altre passioni da dichiarare: Borges, Gadda, tè, libri, film, vino, spille vintage, scarpe, arte, musei.

lunedì 18 gennaio 2016

Mancanza di fegato

Affettati d'oca - Fotografia © Brillante-Severina
Lomellina, Lombardia - Durante i tre quarti d’ora di guida mi piace godere il paesaggio della campagna in letargo invernale e pensare ai piatti da ordinare al ristorante che fa dell'oca il suo vanto. Ci penso da due giorni in realtà, perché in un periodo di scarse risorse economiche da dedicare alle avventure gastronomiche, il conto è un dettaglio importante. Oggi il dilemma è fra scelta alla carta con concessione di una non proprio economica scaloppa di foie gras, oppure menu degustazione, con assaggio di più piatti a base d'oca ma senza la prelibatezza agognata. Arrivata al locale, complice il fatto che mi hanno installata nella sala d'ingresso popolata di sole coppie (se mi piace andare al ristorante di domenica è per il tepore creato dai pranzi delle famiglie altrui, che però qui riesco solo a indovinare dal vocio proveniente dall'altra sala, più grande e luminosa) e un po’ per cercare di mantenere fede al buon proposito, cedo al menu degustazione. Sto ancora rimuginando su una scelta della quale non sono convinta, quando la coppia del tavolo vicino ordina la scaloppa, così dovrò anche vedermela servire sotto al naso. I due, che sembrano gli occupanti del suv che mi ha superata poco prima dell’arrivo al ristorante, devono essere ai primi appuntamenti perché oltre a mostrarsi foto sui rispettivi cellulari, si scambiano informazioni basilari tipo segno zodiacale e attività sportive praticate. Intanto arriva il primo antipasto previsto dal mio menu, un ventaglio di quattro tipi di affettati, rigorosamente ricavati dal bipede, affiancati da uno spesso triangolo di patè un pochino troppo freddo per convincerlo che è un dolce destino lasciarsi spalmare senza riluttanza sopra i crostini (in realtà un comune pan carré che fa rimpiangere il pan brioche venduto ormai anche al supermercato). I riccioli di burro scivolano invece arrendevoli sul pane, coprendo la dorata tostatura con un velo sottile il giusto. Il boccone migliore si rivela il petto d'oca, luccicante di grasso e stagionatura. I piatti successivi sono serviti a staffetta praticamente continua (un po’ lesta, ma non posso chiedere di rallentare perché, essendo il menu degustazione previsto per almeno due persone, per potermelo servire mi hanno gentilmente “agganciata” a un altro tavolo che lo ha ordinato) e la coerenza della degustazione è disarmante: tutto discreto e nulla di memorabile, come se mancasse il fegato di uscire dallo schema collaudato, come del resto a me è mancato quello di ordinare alla carta. Sono alle prese con la gobba di risotto alla salsiccia che per la mite presentazione fa a gara con la manciata di ravioli che l'hanno preceduta (buoni, ma gettati nel piatto senza tanti complimenti e serviti dalla giovane cameriera con lo stesso garbo con cui si porgerebbe una chiave inglese in officina), quando al tavolo a fianco arriva a tradimento la famigerata scaloppa di fegato d’oca. Non posso non lanciare uno sguardo indiscreto oltre l’ostacolo delle spalle strettamente ingiacchettate di lui, superare l'etichetta indecifrabile della bottiglia di Pinot nero arrivato a metà e riuscire a sbirciare nel piatto ancora intatto di lei. Quasi la mascella mi casca per la sorpresa di intravedere non la succulenta prelibatezza che avevo inseguito nei miei sogni di golosa, ma una deludente sovrapposizione di due tranci incrociati (in cucina han sezionato la scaloppa come se fosse una cotoletta, blasfemia!) dal colore più bruno che biondo cognac, poggiati su una piramide di misticanza che mi pare indegno contorno per un cibo da faraoni. Dal tavolo arrivano cinguettii di felice e giuliva approvazione, ma non c’è troppo da fidarsi della prima oca che si incontra. 
(Dedicato a Beatrice Potter)

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